sabato 30 maggio 2009

Il biopotere dell'impero post-moderno

L’irrompere del “pericoloso terrorista” nella nostra realtà (mi ricordo dopo l’11 Settembre, le esercitazioni che si facevano per prepararsi ad eventuali attacchi terroristi), e ancor più nelle rappresentazioni dei mass media, ha fatto diventare l’idea della guerra non più come uno scontro, ma è diventata uno strumento al servizio del potere, che può giovarsene nella gestione dei problemi di politica interna tanto più facilmente in quanto gode dell’autorità e del consenso che si ricompatta nel momento della minaccia. Il modo più facile per rinsaldare l’unità di un paese è infatti quello di individuare un nemico esterno. Infatti in Italia ogni qual volta un nostro militare delle cosiddette missioni di pace all’estero viene preso di mira da qualche gruppo avversario, non esistono più divisioni: destra e sinistra blaterano la stessa litania. Dopo la caduta del “muro di Berlino”, le classi dirigenti dei paesi hanno dovuto costruire un nuovo nemico. Serviva qualcosa su cui fare leva, così che il gioco delle contrapposizioni potesse continuare a evocare da una parte l’Occidente e dall’altro l’Oriente. Ed ecco la soluzione: il terrorismo globale. Prima gli Stati Uniti, ma non solo loro, hanno formato e armato questi gruppi, che si sono poi rivelati adatti a suggerire l’immagine di unità “arabo-musulmana” che fronteggerebbe il mondo occidentale. Nella realtà sono quasi inesistenti queste unità e difficilmente si potrebbero affermare nel mondo musulmano, ma sono utilissime a giustificare l’escalation del controllo sociale generalizzato.
L’utilizzo della minaccia terrorista (reale o immaginaria) da parte del potere porta allo scoperto il fenomeno emergente del biopotere, forma avanzata del potere disciplinare nella sua strategia di gestione delle popolazioni. Secondo M. Foucault la violenza estrema delle guerre deregolamentate del XX secolo nasce dal fatto che esse sono state condotte come delle guerre razziali, infatti nel loro contesto il nemico non viene più percepito come un avversario politico, ma come un pericolo che dall’esterno o dall’interno minaccia la vita della popolazione. Vedasi la vicenda degli sbarchi di clandestini sulle nostre coste, ai quali in modo indiscriminato viene ignorato il diritto d’asilo e che vengono rimpatriati in massa in paesi nei quali non vengono tenuti in alcuna considerazione i diritti umani.
Le nostre società sono in effetti società della normalizzazione. In esse il potere si presenta anzitutto come biopotere: potere cioè di condannare a morte chi si suppone rappresenti un pericolo per la società. A tal proposito basta ricordare che in alcuni passaggi del Trattato di Lisbona vi è la reintroduzione della pena di morte per insurrezione contro i governi. Insomma la funzione omicida dello stato stesso non può essere assicurata che dal razzismo. La guerra trova la propria giustificazione in un potere di tipo normativo, che assume appunto la forma della classificazione di un gruppo umano determinato in senso biologico (da qui la nozione di “razza”) e additato come minaccia per la popolazione stessa. Si sono svolte in questo modo le guerre coloniali e gli stermini di innumerevoli minoranze annientate durante il Novecento, ma non vi è alcun dubbio che è all’interno di questa linea che dobbiamo situare il fenomeno del terrorismo, incarnazione contemporanea della guerra razzista propria delle società incentrate sul biopotere e sul sempre più serrato controllo che esse esercitano sulla popolazione in nome della difesa della salute dei corpi standardizzati e formattati dai modelli di riferimento dominanti.
Il biopotere produce infatti, guerre presentate come operazioni di sicurezza, che tendono ad assumere i connotati di un intervento di tipo sanitario. Il linguaggio medico domina il discorso del biopotere. Si parla di “precisione chirurgica” degli attacchi, di “danni collaterali” delle operazioni portate a termine, della denuncia negli ospedali dei clandestini e della schedatura a scuola dei loro figli per evitare il diffondersi di malattie infettive tra la popolazione…La società, il cosiddetto “mondo civilizzato”, sarebbe minacciato da agenti “patogeni” che si tratta di “sradicare” e i metodi necessari alla difesa godono di una giustificazione aprioristica: esiste un’unica popolazione e gli “altri” sono inumani! Questo nuovo genere di guerra prevale sulle altre. Il pericolo che ci minaccia viene presentato come permanente, diffuso, totale. La sorveglianza e il conseguente intervento devono quindi a loro volta essere permanenti, diffusi, totali. Devono investire la vita umana a ogni livello e in ogni dimensione. Si chiede a tutti e in tutti i luoghi di essere poliziotti di se stessi. Insomma il motto è: dalla culla alla tomba ti sorveglio e ti punisco, anzi ti sorvegli e ti punisci da solo!

domenica 24 maggio 2009

Il dominio si fonda sull'eliminazione del conflitto

Se provate a chiedere a un gruppo di persone come affrontare il conflitto, la risposta è che l’unico modo possibile è la guerra. La guerra serve a porre fine a qualsiasi conflitto: ma un simile pensiero della “tabula rasa” dimentica la complessità del conflitto a vantaggio del momento dell’eliminazione dell’avversario. La violenza delle nostre società sarebbe confinata nei periodi di guerra e l’unico spazio in cui può esplodere la tensione accumulata e che struttura i rapporti sociali di ogni giorno è quella della “guerra totale”.
La guerra totale è soprattutto una guerra senza regole: le battaglie e gli scontri, che in genere hanno precisi meccanismi di regolazione interna, si disfano di quei vincoli per lasciar posto a conflitti armati senza limite, il cui obiettivo è l’eliminazione della popolazione nemica nel suo insieme, anziché soltanto del suo esercito. La guerra totale comporta quindi l’esplicita volontà di riduzione del conflitto al solo conflitto armato: essa non è solo una guerra più barbara di altre, ma è una guerra che mira alla riduzione del conflitto ad una unica dimensione, appunto quella della scontro.
Le origini del fenomeno si ritrovano già in tempo di pace. La guerra totale nasce da società incapaci di pensare il conflitto nelle sue diverse dimensioni, da società che pensano di dover affrontare il conflitto mirando all’annientamento di tutto ciò che è “altro”. Infatti credo, che questo tipo di tendenza sia iniziata dagli eserciti rivoluzionari nella Francia del 1789 destinata a diffondersi in modo caratteristico nel XX secolo.
L’esordio del novecento è stato il genocidio degli armeni e da quel momento la storia contemporanea è passata da una “soluzione finale” a un’altra senza interruzioni. A Guernica si tennero le prove generali della Seconda guerra mondiale. Poi venne l’annientamento di massa degli ebrei d’Europa, nonché degli zingari e degli altri “devianti”, gli omosessuali, i malati psichici. Tutto questo segnò un taglio netto rispetto a ogni forma tradizionale di conflitto. Nei campi di sterminio, insieme a sei milioni di ebrei, morì il progetto dell’Illuminismo, morì la sua fiducia in un progresso illimitato, che avrebbe dovuto condurre l’umanità a realizzare il paradiso in terra. Le scienze, la filosofia, il movimento operaio avevano fatto della Germania una promessa per il futuro, e l’eco di tutto questo era ancora ben percepibile negli anni in cui si affacciò sulla scena il nazismo. Eppure la promessa partorì il mostro, e il mostro della guerra totale e della “soluzione finale” proseguì il suo cammino dalla Cambogia al Ruanda, teatro di altrettanti conflitti deregolamentati che culminarono nel genocidio. E’ infatti caratteristico di simili massacri che essi costituiscano la continuazione della politica con altri mezzi. Non però di una politica qualsiasi. Ma di una politica di dominio, cioè di una politica fondata sull’annientamento del conflitto.
La guerra moderna è infatti indissociabile dalla distruzione della dimensione del conflitto, attraverso la sua riduzione a puro e semplice scontro. Di qui l’illusione, propria di ogni guerra tecnologica, di una totale padronanza della violenza e dei risultati a cui la violenza sembra portare. Illusione, tuttavia, che dà vita al suo opposto, alla guerra ingovernabile, alla guerra senza limiti. Nessuna delle guerre moderne è finita nei tempi e nei modi previsti. Il solo caso di una guerra che si sia svolta secondo i desideri dei generali è quello della guerra dei sei giorni nel 1967. Questa guerra fece precipitare Israele e l’insieme dei paesi arabi limitrofi in una situazione senza via d’uscita, e il trionfo che i militari avevano ottenuto sul campo mirando alla semplice vittoria di uno scontro non fece altro che consegnare Israele a una realtà subito rivelatasi ingestibile, quella dei territori occupati. Di fronte alla complessità del mondo arabo e quindi alla molteplicità delle sue contraddizioni (ci sono posizioni che vanno dal movimento palestinese rivoluzionario a posizioni dei capi di stato dei paesi arabi reazionari), di fronte alla problematicità di questo conflitto la guerra dei sei giorni era pensata come una guerra totale, la madre di tutte le guerre, destinata a semplificare una volta per tutte quella situazione ingovernabile. Ma proprio questa è la caratteristica tanto minacciosa quanto attuale della guerra come puro scontro.
L’idea è ormai entrata a far parte della vita quotidiana in tempo di pace. La violenza delle società disciplinari di questo inizio secolo plasma l’immagine dell’opposizione come minaccia che va eliminata.

lunedì 18 maggio 2009

Sarà pace per sempre?

Ogni qualvolta che pensiamo al conflitto ci viene subito in mente la guerra. La guerra è il fenomeno che ci può aiutare meglio a comprendere le barbarie che si nascondono dietro la rimozione dei conflitti della nostra società. Aver pensato di poter vivere costantemente in un mondo di pace, che era pace solo per una parte del mondo mentre per l’altra parte le condizioni di vita si brutalizzavano sempre di più, ha reso talmente banale il male che abbiamo finanche rimosso il senso di colpa e quindi la responsabilità di gestirlo.
Nel 1778 Kant nel suo “Progetto per la pace perpetua” affermava che il cammino verso la pace universale era possibile in quanto l’umanità era ormai in condizioni di governarsi razionalmente da sola. Insomma “i bambini erano diventati adulti”: li si poteva far uscire da soli senza che fossero massacrati in giro per il mondo. Oggi, a distanza di più due secoli chi oserebbe ancora parlare di pace continuativa o semplicemente di temporanei cessate il fuoco?
Forse dovremmo iniziare a prendere coscienza che la guerra non è una malattia infantile dell’umanità, ma ha una sua ragione di esistere. Non tutto quello che esiste nella vita degli uomini, possiamo dividerlo tra buono e cattivo, tra giusto e ingiusto. Esiste e basta! La guerra, insomma, è necessaria al sistema in cui viviamo, lo riequilibra, un enunciato difficile e doloroso ma molto vero! Ciò non toglie che ancora oggi la guerra sia pensata come un’anomalia a cui tentare di porre fine al più presto, una forma di conflitto che si tratta di eliminare alla radice. Solo la pace appare desiderabile, almeno da un punto di vista astratto e idealista.
Secondo l’ideologia dominante delle nostre società disciplinari, solo un folle, invece, può desiderare la guerra, infatti siamo pieni di servi che preferiscono aver salva la vita in cambio della rinuncia alla libertà. Il servo è colui che, anziché farsi carico della conflittualità, della guerra e della sua violenza, sceglie per una disciplinata sopravvivenza. Il guerriero invece è una figura antropologicamente decisiva in tutte le culture e le società umane, di cui è difficile valutare la portata in un’epoca ipocrita in cui l’industria degli armamenti prospera accanto ai discorsi sdolcinati fatti a favore della pace. Dobbiamo imparare a pensare nuovamente la guerra non come una pura e semplice interruzione della normalità, ma come un quadro di sviluppo complessivo in cui si inscrivono molteplici processi. Del resto come non notare che anche le ragioni dell’odierna contrapposizione tra Oriente e Occidente, in apparenza tanto legate a vicende contemporanee, ripetono di fatto uno scenario vecchio di almeno dieci secoli? E al ruolo di cerniera che l’Italia storicamente ha svolto tra queste due civiltà? E che cosa succederà se l’Italia viene meno a questo ruolo, come sembra che faccia, in relazione alla vicenda della non accoglienza e dell’intolleranza nei confronti dei disperati che provengono dai paesi poveri del mondo? Oppure siamo così sciocchi da pensare che questo non modificherà l’atteggiamento di quei popoli nei nostri confronti?
Quindi le domande da porsi sono: come possiamo pensare al mondo e alla vita, individuale e sociale, rinunciando alla promessa della pace perpetua? Come possiamo introdurre nelle nostre visioni del mondo, nei nostri modelli di riferimento per imparare nuovamente a pensare alla guerra come a un qualcosa che si ripresenta nella vita delle società?
Se non riusciremo a riappropriarci di questa dimensione, lungi dal chiudere definitivamente i conti con la realtà della guerra ci condanneremo a guerre sempre più barbare, perché combattute nel deserto dell’indiscusso e dell’impensato. Perché la guerra non sia guerra totale, è necessario tornare a includere nei nostri schemi di pensiero ciò che avevamo creduto di poterne escludere. Quindi bisogna criticare la guerra a partire da posizioni oggettive e non idealistiche, questo è quanto dobbiamo fare se vogliamo interpretarla come una delle forme molteplici e contraddittorie del conflitto, anziché come un puro e semplice fronteggiarsi di potenze ostili.

sabato 9 maggio 2009

Praticare il contropotere

Si fa un gran parlare di democrazia, ma in effetti non c’è nulla di meno democratico del periodo che stiamo vivendo e pertanto la parola democrazia è diventata una parola vuota di significato usata in tutte le salse per condire un sistema orripilante e repressivo. Ma andiamo con ordine.
Con l’emergere delle forme contemporanee di quella che chiamiamo democrazia, l’uomo “reale” non diventa ciò che sperava di diventare e cioè un individuo sovrano, un cittadino illuminato, un soggetto responsabile della propria vita, ma invece ha dovuto rimuovere la molteplicità che costituiva il tessuto sociale e dell’individuo che ne è una piega e un’espressione. Infatti le comunità che ho osservato, (utilizzo il termine comunità come eufemismo) i cittadini non hanno nessun legame sociale, nessuna relazione sociale significativa tra di loro. E’ stata del tutto eliminata questa dimensione umana, riducendo le comunità a dei territori fatti da abitazioni, strade e luoghi di produzione e di consumo.
Questo primo livello in apparenza sembra tranquillo, ma se lo osserviamo in profondità è il luogo caratterizzato da una perenne e forte conflittualità. Questo luogo non è affatto rappresentato politicamente, mentre la rappresentazione politica corrisponde ad un secondo livello quello della fabbricazione di un uomo astratto senza pulsioni, senza radici. La realtà degli interessi privati corrisponde infine a un terzo livello, quello della macroeconomia che si è sostituita ideologicamente ed oggettivamente al primo livello, quello appunto sopracitato del conflitto sotterraneo mai manifesto.
In questo modo, la ragione economica va ad occupare il posto della realtà complessa e contraddittoria delle nostre società. Ciò spiega il perché il secondo livello, quello politico, vada progressivamente riducendosi a una forma di gestione e di rappresentazione non del livello concreto della conflittualità diffusa e sotterranea, ma delle sfere economiche e dei suoi interessi. D'altronde non sono necessarie analisi politiche e teoriche per confermare questo, ma è sufficiente la percezione di ognuno di noi del divario tra la realtà quotidiana e la sfera politica.
Il trionfo di questo sistema è radicale, in quanto arriva a creare una percezione normalizzata delle cose, una percezione non più ideologica ma come la natura stessa del mondo, come l’essenza dell’uomo. Ovviamente per far ciò è necessaria una folta pletora di esperti nei campi più disparati che governano i mass media e di conseguenza formano l’opinione pubblica, facendoci credere che l’unico e migliore mondo possibile è quello in cui viviamo.
Di fronte ad una situazione di questo tipo non possiamo più essere in una posizione di attesa messianica, ma quotidianamente praticare la propria emancipazione e quelle degli altri camminando. Ed è questo camminare, cioè questo spostarsi nello spazio e nel tempo, che rivitalizza la società attraverso pratiche di contropotere, che rimettono al centro delle nostre analisi e pratiche quel sottostrato contraddittorio e conflittuale del processo materiale definito all’inizio come primo livello.
La via del contropotere è appunto la via del conflitto, e solo attraverso questa via può nascere qualcosa di comune in un gruppo o in una comunità, quindi grande responsabilità hanno tutti quegli operatori socio-culturali che non possono più esimersi da questo compito di rimettere in moto la società anziché narcotizzarla.

venerdì 1 maggio 2009

Le leggi contro natura delle città

Una delle questioni centrali che emerge durante il mio lavoro di intervento nel campo psico-sociale è quella che le persone hanno rimosso dalla loro testa il “conflitto” ed è qui tutta la crisi della democrazia contemporanea. Di fatto la crisi è data dalla crescente dissonanza tra le leggi naturali dell’uomo e le leggi delle città, cioè quelle leggi che si pongono al servizio esclusivo degli interessi economici dominanti. Ciò che io definisco come leggi naturali e che designano la realtà fondamentale del conflitto, non sono leggi positive, ne sono leggi conoscibili in quanto tali, ma sono leggi secondo le quali “non tutto è possibile” e quindi c’è un limite oltre il quale non si può andare e non si deve andare.
Le leggi naturali dell’uomo sono il fondamento che garantisce, in forme differenti, il dispiegarsi della vita di un popolo, di una civiltà. Nelle comunità che mi capita di lavorare, ma in generale nelle comunità dove viviamo, si dovrebbe verificarsi una consonanza tra le leggi delle città e quelle naturali dell’uomo. Ma ciò non avviene, perché? Perché le nostre cosiddette “democrazie” contemporanee sono tormentate dal dilemma di costruire a tavolino un processo storico privo del soggetto “uomo”, ma dichiarandosi a favore di questo ultimo. Ad esempio non c’è un quartiere delle città che sia pensato in funzione del fatto che devono “vivere” e non semplicemente abitarci degli esseri umani; ma si fa un gran parlare dell’uomo e dei suoi bisogni a condizione che sia un “uomo” che sia semplicemente un consumatore vorace di tutto e quindi ancora una volta funzionale alle èlite affaristiche.
In nome della ragione economica, i membri della democrazia moderna dichiarano di trovarsi alla sommità del percorso di civilizzazione negando l’esistenza di miliardi di esclusi e di veri e propri dannati della terra, esattamente come faceva l’Unione Sovietica della dittatura del proletariato, dove gli uomini e le donne in carne e ossa si trovavano di fatto privati di qualsiasi forma di diritto. La democrazie moderna pretende insomma di essere il solo sistema politico in accordo con la natura umana, nel momento stesso in cui sostituisce alla molteplicità conflittuale del tessuto sociale il giochino finto degli antagonismi che il meccanismo della rappresentazione politica avrà preliminarmente formattato in base agli schemi imposti dalla ragione economica. Questo vale per tutti quei paesi, compreso l’Italia, che si richiamano alla democrazia moderna come contenitore vuoto.
E sono più evidenti le contraddizioni, proprio in quelle grandi aree metropolitane dove le leggi delle città tanto meno sono in accordo con le leggi naturali dell’uomo tanto più vengono attraversate da crisi sociali e storiche. In alcune zone d’Italia, dove più forte è stata l’urbanizzazione dei territori e pertanto il dominio di alcuni ristretti gruppi è stato più feroce, si è distrutto totalmente un ordine sociale; l’unico ordine che avrebbe potuto garantire lo sviluppo della società intera e della vita degli uomini.
Impasse, stallo, incapacità di gestire: sono questi i termini che più rappresentano la situazione odierna.
Ma una società in crisi è anche un organismo in cerca di un nuovo equilibrio dinamico, infatti se osserviamo bene tra le pieghe, in quelle che vengono definite culture underground, sotterranee, metropolitane (anche Internet appartiene a queste forme culturali in crescita) vi è la ricerca di una nuova armonia tra l’uomo e la città.
Questi segnali, oggi deboli e marginali, osteggiati dalla cultura omologante, ma gli unici che creano relazione tra il dichiarato teorico e il praticato nei comportamenti, domani possono diventare sempre più forti e costituire un nuovo ordine sociale.